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Scritto ascoltando: A-Ha – Take on Me
Il 2015, e questi primi mesi dell’anno, hanno visto un enorme buzz sul tema dell’influencer marketing. Articoli, post, casi di studio: contenuti utili a dare peso e forma alle attività legate agli influencer. Tanto rumore per nulla, mi verrebbe da dire, data l’ancora troppo diffusa confusione sul tema. In questo senso diventa fondamentale cercare di dare concretezza, magari tramite l’ausilio di dati certi.
L’agenzia americana RhythmOne, specializzata in programmi di influencer marketing, ha appena rilasciato un report sulla propria attività nel 2015 (qui potete scaricare il report completo). Un documento che, seppur limitato alla singola realtà, può comunque essere d’aiuto per comprendere trend e andamenti della disciplina. Da osservare, in particolare, l’indagine categoria per categoria, un primo passo per comprendere i settori in cui l’influencer marketing ha avuto più impatto.
Parlavamo di concretezza: il report si focalizza infatti molto sull’Earned Media Value (EMV), utilizzato come indicatore base delle prestazioni delle campagne. Un parametro, come dico spesso, da prendere con le pinze, ma che può comunque farci comprendere molto (molto più concreto il DAVE proposto da The Fool).
I progetti di influencer marketing hanno ricevuto 11,20 dollari in EMV ogni singolo dollaro speso in paid media. Un dato che va ovviamente preso così, ma che sottolinea le potenzialità del “mezzo”. Un risultato questo, in netto aumento rispetto l’anno precedente (+63%).
Un dato che sale addirittura a 21,03 dollari nel settore delle bevande alcoliche e a 18,98 dollari nel settore travel. Nulla di nuovo sotto il sole: ci sono settori e settori ed ognuno è più o meno indicato alle attività con gli influencer. Il successo di queste due categorie dovrebbe essere monito per i brand italiani, tra i più rilevanti in questi campi.
L’utilizzo di concorsi a premi o i sempre più diffusi giveaway (complessi da realizzare in Italia) sono plus che aumentano considerevolmente le prestazioni di una campagna. Se è vero che l’influencer marketing spontaneo ha alla lunga risultati migliori, un aiutino economico fa comunque il suo effetto.
Il report va poi a focalizzarsi sui diversi canali utilizzati, social media in particolare. Tra i più utilizzati la fa, come previsto, da padrone Instagram: il social action rate è infatti del 3,21%, a dispetto di una media generica dell’1,18%. A seguirlo Twitter con il 3% e Facebook con l’1,53%.
Ovvio ricordare che qui parliamo di USA, un mercato con caratteristiche ed abitudini “social” ben diverse dalle nostre. Gli ottimi risultati di Twitter sono il miglior esempio di queste differenze.
Anche in questo caso cambiando il settore possiamo notare differenze notevoli. Il vostro brand lavora nel baby care? Allora non potrà prescindere da Pinterest (2,10% di social action rate). Se invece siete nel campo dell’elettronica non potrete rinunciare a Twitter (0,68%).
Il potere di amplificazione e la visibilità dei social restano però la risorsa principale per gli influencer, canali primari per raggiungere i propri follower e comunicare con essi.
Restano notevoli differenze da categoria a categoria sull’utilizzo dell’influencer marketing. Ovvio è che alcuni ambiti trovano maggiore affinità con questa forma di marketing e sulla collaborazione con gli opinion leader.
Il mondo Food, ad esempio, resta di gran lunga quello più impegnato in tali progetti. I risultati ci dicono però che sono molti i settori che potrebbero (e dovrebbero) credere di più nel potenziale degli influencer: i già citati mondi del beverage e del travel, ma anche settori come home, toys & games, beauty hanno un potenziale per lo più inespresso.
Il report delinea certamente spunti interessanti riguardo il tema dell’influencer marketing, evidenziando l’impatto nelle diverse categorie merceologiche e nei diversi canali utilizzati. Spunti, come dicevamo, punti di partenza per riflessioni più ampie e soprattutto affini alla nostra realtà.
Non va infatti dimenticato che il report si basa SOLO sulle campagne realizzate dall’agenzia statunitense, rendendo gran parte dei dati poco oggettivi. Aggiungiamoci poi il mercato straniero, quello americano, nettamente diverso per abitudini e peculiarità.
Premesso ciò, credo che questo spaccato confermi la dirompente crescita dell’influencer marketing, una “febbre” sempre più sentita anche da noi. Il vortice delle mode non deve mai però far dimenticare che non basta contattare o farsi fare un post da un presunto “influencer” per dare vita ad un progetto performante. Servono progettualità ed una preparazione analitica dalla fase di scelta alla gestione. Il rischio è trarre da questa serie di numeri la sensazione del “semplice”, del “basta pagare”.
Non stiamo comprando un servizio, dobbiamo sempre ricordarci che è una questione di relazioni. Più ne creeremo di salde e reali, più ci daranno buoni frutti. Una “fatica” che vale ogni minuto speso.