Parlo sempre di quanto il contenuto sia il carburante di ogni buon progetto online, dai brand ai creator, e di come questo, o meglio il suo impatto, sia determinante nel delineare il percepito degli utenti. Il “cosa” racconti dà forma, credibilità, empatia, ma soprattutto notorietà e posizionamento. Semplificando si può dire che guardando ciò che si pubblica una persona ha un’immediata contezza (topic, stile, linguaggio, ecc) della figura/brand che ha dinanzi o, almeno, di quello che questi vogliono rappresentare.
Una rappresentazione che travalica molto spesso i confini del digitale andando a influenzare anche ciò che digitale non è, spesso “modificando” il dna di marca, del proprio personal branding o addirittura della propria vita quotidiana. Questo proprio a causa della ricaduta della percezione e dei giudizi che gli utenti si fanno fruendo quei contenuti che lui porta, semplificando, ad applicare quel pattern in modo automatico. Per la serie che perché un creator fa video ironici POV su TikTok significa che anche nella vita reale sarà così estroverso/divertente. Un fatto spesso vero, ma magari non in senso assoluto come tanti, troppi, pensano.
Questa narrazione, non per forza da intendere come lontana dal reale (non sempre è così), lavora talmente in profondità sugli utenti tanto da portarli, nel medio periodo, a rendere quasi permanente la percezione formata, una percezione talmente salda nell’immaginario collettivo da diventare assoluta per molti, indipendente, nel senso ormai in grado di emanciparsi dal contenuto stesso, sia in ordine di qualità che competenza.
Sono stati i contenuti inizialmente a far percepire Chiara Ferragni come influente in ambito moda, ma col passare del tempo e il rafforzarsi del suo posizionamento (proprio grazie ai contenuti) è la sua figura in quanto tale (e percepita) a rendere ciò che “tocca” (e pubblica) “fashion”. La riprova dei contenuti perde valore e anzi, lavora in direzione contraria: sono i contenuti stessi a sfruttare la validazione sociale data dalla fama/posizione dell’autore.
Un ribaltamento totale che può essere pericoloso da gestire quando parliamo di attività di influencer marketing e brande content. Perché se è vero che scegliamo, dati alla mano, il giusto creator/influencer/testimonial da coinvolgere, lo è altrettanto che nella maggior parte dei casi l’output principale della collaborazione saranno dei contenuti, fatto che deve per forza costringerci a ragionare su questa “scissione” tra figura e content.
Ci sono diversi esempi utili a capire questa dicotomia. Il primo è senza dubbio quello della collaborazione tra Khaby Lame e Boss, in cui il creator è diventato testimonial mondiale del nuovo corso dato al brand. Un’operazione forte, d’impatto, che convince pienamente a livello di rappresentanza del marchio, passando messaggi come internazionalità, attenzione ad un pubblico più giovane (attento allo stile, ma più casual), contemporaneità, ma molto meno se pensiamo ai contenuti tipici di Khaby. La sua celebre posa e il mood dei suoi video sono realmente in linea e affine con il dna del brand? Con tutta onestà non pienamente.
Altro caso esemplare è la collaborazione tra Mattia Stanga e Prada, per la sua linea di profumi. Anche qui dubbi limitati sulla scelta di Mattia come personaggio: giovane, fluido a livello di gender, “vicino” agli utenti rispetto ai classici testimonial scelti. Ma a far dubitare è invece l’affinità dei contenuti prodotti per il brand da Mattia e il marchio stesso, distanti, forse troppo, dalla sua immagine. E se da una parte approvo la volontà di guardare oltre e non stare ancorati, penso anche che il brand, quello con la B maiuscola che costruiamo con tempo e fatica, sia una cosa seria e che va il più possibile rispettato nei suoi elementi distintivi e rappresentativi.