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Scritto ascoltando: Peter Murphy – Cuts You Up

Sono da sempre convinto dell’assoluta qualità dell’individuo. Bot, algoritmi, tool, strumenti in molti casi indispensabili, ma che non possono prevaricare l’elemento umano. L’influencer marketing è senza dubbio una delle attività che più ne risentono, un’attività il cui successo è strettamente connesso agli attori in campo. La persona giusta al posto giusto qui non è tanto un consiglio quanto una reale necessità. Un chi che diviene valore distintivo al pari del cosa e del dove.

Una questione d’individuo, di persone reali che mettono le proprie qualità al servizio di un brand. Tutto vero, tremendamente vero. Ma esistono casi in cui la capacità d’influenza non è questione di un singola, ma collettiva. È il caso delle community, comunità online che racchiudono persone attorno a passioni, argomenti, settori comuni. Veri e propri hub capaci di connettere utenti e favorire le relazioni. Luoghi dove il ruolo d’influencer è demandato al gruppo di utenti che le compongono. Alcune di queste comunità virtuali (per es. Adotta1blogger, Instagramers Italia) sono infatti in grado di essere punti di riferimento per gli utenti e conseguentemente per i brand.

Poli d’aggregazione in cui i membri non solo cercano informazioni su servizi e prodotti, ma un dialogo concreto su essi. Quesiti, opinioni, pareri, una fucina di conversazioni focalizzate e con un alto credito di fiducia da parte dei diversi player coinvolti. Potenzialità enorme se utilizzate al meglio.

Tutto facile allora? Affatto. Collaborare con le community significa rispetto ed attenzione, perché le opportunità non si trasformino in criticità. Piccole ma fondamentali regole d’ingaggio da seguire e che diventano per noi punto di partenza per coinvolgerle nel modo corretto.

CHIEDERE “PERMESSO”

Da qui comincia tutto. Ogni azienda prima di interagire con la community ed i suoi membri deve leggere attentamente la policy di comportamento (cosa possiamo o non possiamo fare all’interno del gruppo) e contattare gli amministratori. Spiegare loro l’intenzione di partecipare alla vita della community non è solo educazione, ma doverosa mossa per presentarci e dimostrare trasparenza d’azione. Da evitare assolutamente eventuali recite, travestendo collaboratori da semplici utente: oltre che scorretto può dimostrarsi molto controproducente quando scoperti

NON SIAMO A CASA NOSTRA

Se c’è un padrone delle community sono gli utenti, nessun altro (noi compresi). Potremmo partecipare alle conversazioni, si potrà discutere del nostro brand ma questo in nessun modo ci darà il permesso di sentirla nostra e sfruttarla, facendo ciò che vogliamo.

IL BRAND NON È L’UNICA VOCE

Alimentare le conversazioni non è sbagliato per i brand. La cosa importante è che i contributi siano fatti per arricchire e dare valore e non solo per mettersi in luce e pubblicizzarli. Siamo noi al servizio della community, non viceversa

ASCOLTARE

Un consiglio, più che un comandamento. Non solo perché può essere un modo a costo zero per comprendere ciò che gli utenti pensano di noi, ma soprattutto perché diventa occasione per dimostrare di essere disponibili, valutando richieste, consigli e magari anche critiche. Una dimostrazione in più della volontà del brand di relazionarci

NESSUNA ATTENZIONE A TUTTI I COSTI

Forse l’errore più classico da parte delle aziende. Le community nascono e prosperano anche senza di noi. Non possiamo quindi pretendere di essere l’origine di tutto e che le nostre priorità siano per forza quelle dei membri. Cercare continuamente attenzione rischia solo di farci sembrare scomodi e digitalmente poco educati