E’ giunto il momento di tornare a mettere al centro l’utente. Sì, di nuovo. Lo spiegava bene anche Giorgio Soffiato durante l’ultimo B2B Day: è vitale rifocalizzarsi sulle persone e, in particolare, su un customer journey più umano, più “liquido”. E se per questo dobbiamo distruggere il funnel, ebbene, così sia!
Perché il funnel è uno strumento diventato suo malgrado il simbolo delle metriche acchiappa-attenzione, di una visibilità che non sempre porta a convertire in transazioni e comportamenti davvero utili.
Si tratta di riscoprire in noi stessi l’approccio human oriented, un foglio bianco dove scrivere obiettivi, strategia e tutti i passaggi fino alla personalizzazione intelligente (anche dei contenuti), che valorizza le nostre care buyer personas e dà senso al clustering. Una rivoluzione copernicana insomma, che estende ed evolve il concetto di user experience.
Cliente, utente, uomo, brand, macchina. C’è altro? Volevo l’esperienza…
Cosa succede quando si supera la distinzione netta fra prodotto e servizio? Pensiamo a Netflix: un ibrido tra prodotto e servizio appunto, che trasforma il consumo di contenuti video nei modi, nel tempo e nello spazio. Quanti diversi tipi di esperienza ci sono in Netflix? E quali di questi sono definiti dall’uomo e quali dall’algoritmo? Ma soprattutto: siamo sicuri di essere d’accordo sulla definizione di “esperienza”?
Per prima cosa diciamo che stiamo parlando di esperienze come le definiscono bene Pine e Gilmore: memorabili, aspirazionali, qualitative, ma soprattutto “trasformative”. Trasformano alcuni parametri di funzionamento consumatore, umano molto umano che scrive nuovi comportamenti sotto l’azione di nudging del codice macchina e del recommendation engine.
E se la visione socio-economica è utile, quella meccanica lo è ancora di più: la user experience come somma di tutte le interazioni che avvengono nel corso del tempo e tramite tutti i touchpoint disponibili. Facile, no? Certamente questo è il modo con cui viene immagazzinata in un database. Peccato però che questa somma non sia algebrica. Quali sono i moltiplicatori e gli esponenti da applicare ai singoli elementi di questo magico vettore per descrivere bene l’esperienza vera, quella umana, quella delle reazioni chimiche nel cervello? Ma se non sappiamo come scrivere un modello affidabile per l’esperienza, come facciamo a progettare la strategia di marketing che ci serve per stare al mondo?
Creare contenuti. Sì, ma per chi?
Non è un caso se chi si occupa di creazione contenuti è stato per anni sedotto dal concetto di user experience come misurata a posteriori attraverso una pannello analitico. Contenuti tagliati su misura per le necessità di utenti, lettori o follower, per trasformare un UHM in OK e preferibilmente in WOW. Messaggi progettati per attirare l’attenzione, coinvolgere e orientare le preferenze verso un interesse comune a quello del brand e nel modo più etico possibile… eppure, a rifletterci bene, davvero la priorità nella creazione dei contenuti per l’utente è la persona? Oppure è l’algoritmo?
Mentre proviamo in ogni modo a massimizzare il return on experience dei nostri investimenti, in che modo la tecnologia sta cambiando le regole del gioco? Realtà aumentata e virtuale, big data e intelligenze artificiali sono ormai disponibili a scaffale anche per creare contenuti in funzione dell’efficacia sulle piattaforme di servizio. Hai una carta di credito? Bene, puoi inserire un elemento nuovo per aumentare l’x-factor di conversione del tuo brand, ma di nuovo torna la stessa domanda: cosa stai progettando davvero? Per chi?
Un esempio su tutti: quando produciamo un post blog, non pensiamo a come far contento lo spider di Google? Posizionare il nostro contenuto, definire keyword, titoli, H1 e H2. Non stiamo di certo dimenticando del tutto l’utente finale, ma il nostro cervello di creatori di contenuti vincenti brama di compiacere prima di tutto la macchina-filtro. Idem per i social: quante volte capita di plasmare un contenuto perché venga premiato dall’algoritmo di Facebook?
Verso la Human Experience (HX)
Ma ora basta domande, proviamo a dare una soluzione. Prima di tutto non è solo una questione di content creation, ma di content “cre-action”: stiamo parlando ad un bot per parlare ad un essere umano e ne siamo consapevoli. Stiamo progettando due “actions” diverse con un solo gesto. Come dice Cosimo Accoto, la tecnologia sta creando un nuovo sensorium in cui l’umano non è più al centro. Tuttavia l’umano è nel loop, ci dobbiamo arrivare ovunque egli/ella sia (action 1) e riportarlo al centro (action 2). La tecnologia è abilitatore di scala ed inevitabile co-destinatario, mentre è nostro compito esclusivo tenere a fuoco l’umano che c’è dentro allo user. Meno user experience, più Human Experience. Ecco, l’abbiamo detto.
Oddio, cosa abbiamo fatto! Tranquilli: niente di irreparabile
Abbiamo già molti più lettori di quanto pensiamo e alcuni di questi hanno caratteristiche assai poco umane, ma decisive. Non facciamo però lo sbaglio di credere che la produzione dei contenuti possa avere le stesse economie di scala della produzione industriale. Il brand performa al suo massimo potenziale quando modifica le reazioni chimiche nella testa dell’essere umano, prima e dopo la strisciata di carta di credito. Il brand vive anche di transazioni emozionali. La Human Experience è il fattore da mettere a stato patrimoniale.
Abbiamo temuto di perdere di vista lo “human” perché è più semplice vendere allo “user”. Siamo stati risucchiati dal vortice degli indici di conversione, ma per fortuna ci siamo resi conto in tempo di come il brand debba imparare a parlare all’algoritmo ed all’uomo, insieme ed in due modi diversi.
Le due cose non si possono più separare da quando in mezzo c’è uno schermo o una notifica push, accettiamolo. Il funnel ci ha aiutato a maturare come un pugno in quarta elementare. Domani è un altro giorno.
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